LA FORMA DELLE STORIE E LA GEOGRAFIA TEMATICA

di
Luca Rubinato

DOMANDA DRAMMATICA E DISTANZA DRAMMATICA

Cosa significa che una storia è ben costruita?

Perché un amico può raccontarci del suo viaggio in India e annoiarci a morte e un altro parlarci dei suoi problemi con la macchinetta del caffè e farci divertire?

Secondo il dizionario, una storia è una “successione di fatti e vicende di carattere personale, comunque circoscritti a un personaggio, a un ambiente”. Sembrerebbe quindi che l’unica dimensione fondamentale di una storia sia il tempo. Una storia è una successione di avvenimenti che si svolge nel tempo.

Stamattina Marco si è svegliato, si è lavato i denti, ha bevuto un caffè, si è vestito ed è andato al lavoro.

Questa è senza alcun dubbio una “successione di fatti e vicende”, ma come storia lascia a desiderare. Allungare o accorciare questa sequenza, renderla più o meno dettagliata, non cambierebbe la situazione.

Stamattina Marco si è svegliato, si è lavato i denti, ha bevuto un caffè ed è andato al lavoro. Otto ore dopo, mentre tornava a casa, è stato investito da una macchina ed è morto.

A differenza della sequenza precedente, questa potrebbe essere l’inizio di una storia.

La morte di Marco cambia la nostra percezione della sequenza di avvenimenti perché rappresenta un’inversione di senso. Introduce un negativo che contrasta con il positivo che l’ha preceduta. Marco che si lava i denti è in continuità con Marco che si sveglia. Marco che muore è in opposizione.

A dire che questa seconda sequenza di avvenimenti non si sposta semplicemente nel tempo, ma anche nello spazio. In questo caso, uno spazio valoriale. Passa dal positivo della routine quotidiana al negativo della morte improvvisa.

Non si tratta di un caso. Perché una sequenza di avvenimenti crei interesse, e possa quindi essere considerata una storia, deve oscillare tra due poli, uno positivo e uno negativo. Banalmente, una storia deve poter finire bene o male.

Checché ne dica il dizionario, l’asse del tempo non è sufficiente per avere una storia. Serve anche un secondo asse, a costruire uno spazio della storia, con una polarità positiva e una negativa. Solo quando una sequenza di avvenimenti oscilla tra questi due estremi, si può parlare di storia nel senso pieno del termine. Possiamo chiamare questo spazio della storia distanza drammatica.

La distanza drammatica è allora la distanza tra i due esiti possibili, positivo e negativo, di una storia.

La distanza drammatica non è data a priori, ma viene definita dall’autore attraverso quella che chiameremo domanda drammatica.

La mamma di Cappuccetto Rosso le chiede di portare una fetta di torta alla nonna.

In questo caso, la domanda drammatica è elementare: riuscirà Cappuccetto Rosso a portare la torta alla nonna? Nel momento in cui Cappuccetto Rosso incontra il lupo, cioè l’antagonista di questa specifica storia, la distanza drammatica viene a definirsi compiutamente, perché il lettore è ora in grado di identificare con chiarezza il polo negativo, prima assente. La distanza drammatica diventa quindi quella che separa l’esito positivo (Cappuccetto Rosso porta la torta alla nonna) dall’esito negativo (Cappuccetto Rosso viene divorata dal lupo).

Obi Wan Kenobi chiede a Luke Skywalker di aiutarlo a sconfiggere l’Impero.

La domanda drammatica è se Luke Skywalker riuscirà o meno a sconfiggere l’Impero. In questo caso,  la distanza drammatica è immediatamente chiara, essendo la distanza tra la situazione attuale (l’universo governato dall’Impero) e la situazione possibile (l’universo liberato dall’Impero). La storia si muove all’interno di questo spazio.

I “fatti e vicende” della definizione data in apertura acquisiscono quindi senso solo nel momento in cui spostano la storia verso uno dei due poli. Cappuccetto Rosso che incontra il lupo ci sposta verso il polo negativo. L’arrivo del cacciatore che uccide il lupo verso il polo positivo. Cappuccetto Rosso che raccoglie fiori, canta una canzone o parla con un’amica al cellulare sono sì “fatti e vicende”, ma non spostano la storia nello spazio, solo nel tempo, e non creano quindi interesse.

Allo stesso modo, ciò che avviene a Luke Skywalker è più o meno interessante a seconda di come influisce sull’esito finale. Quando Luke incontra Han Solo, noi capiamo che ha trovato un prezioso alleato, la cui presenza rende più plausibile un lieto fine. Ogni qual volta Han Solo minaccia di andarsene, noi preghiamo che non lo faccia, perché capiamo che la sua perdità renderebbe molto più difficile il compito di Luke.

È importante notare che la distanza drammatica di una storia non è data in partenza. All’inizio di Star Wars – o Cappuccetto Rosso, o Il Padrino – noi ignoriamo all’interno di quale spazio valoriale ci stiamo muovendo. Ignoriamo cioè quale viaggio sia la storia vera e propria.

Una storia “ben costruita” è, allora, innanzitutto quella che definisce il prima possibile, e in modo chiaro, la distanza drammatica. Solo una volta posta la domanda drammatica, infatti, il lettore sa valutare qual è il punto di ciò che sta leggendo, quale la posta in gioco, e può così seguire lo svolgersi della storia e valutare la pertinenza di ciò che gli viene raccontato.

Una storia comincia nel momento in cui viene posta una domanda drammatica.

GLI ELEMENTI DELLA STORIA: PROTAGONISTA, ANTAGONISTA, CONFLITTO

La sequenza che termina con la morte di Marco allude allo spazio valoriale di quella storia, ma non lo definisce compiutamente.

Cosa comporterà la morte di Marco? Qual è la posta in gioco di questa storia? Chi ne è il protagonista? È la storia della figlia di Marco che, spinta dalla morte del padre, scoprirà che quell’uomo mite e noioso aveva invece una ricca vita interiore? È la storia della moglie di Marco, che può dirsi finalmente libera e tornare a vivere?

Fino a quando il lettore non conosce questi elementi, non si appassiona alla storia.

Dire che una storia ha bisogno di due polarità equivale a dire che alla base di una storia – qualsiasi storia – c’è il conflitto. Il conflitto tra forze che spingono la storia in direzioni diverse, verso esiti diversi (il cacciatore e il lupo, Luke e Darth Vader, ecc. ecc.).

Dire che alla base di ogni storia c’è il conflitto equivale a dire che ogni storia ha bisogno di almeno due forze distinte: un protagonista e un antagonista.

Attenzione: forze, non personaggi. Un padre e marito amorevole, ma alcolizzato, può facilmente essere sia il protagonista (il padre amorevole: forza positiva), che l’antagonista (l’alcolizzato: forza negativa) di una storia.

Quindi, dire che una storia ci appassiona solo quando può finire bene o male, equivale a dire che una storia contiene sempre un insieme minimo di elementi:

  1. un protagonista;
  2. un obiettivo;
  3. un antagonista.

Se manca uno di questi elementi si ha una sequenza di avvenimenti, non una storia.

La domanda drammatica diventa quindi la definizione chiara di un protagonista, di un obiettivo e di un antagonista.

Sono sicuro starete pensando a decine di apparenti eccezioni a queste “regole”, che sembrano poter spiegare la letteratura di intrattenimento e il cinema hollywodiano, meno la letteratura alta. Il protagonista de L’Odore del Sangue di Goffredo Parise, per esempio, è un fedifrago impenitente, che non ha mai nascosto alla compagna i suoi innumerevoli tradimenti. La storia comincia quando la donna avvia una relazione con un uomo molto più giovane di lei, raccontando al protagonista le infinite umiliazioni a cui il suo giovane amante la sottopone. Il romanzo di Parise è il racconto dell’ossessione che questi racconti scatenano nel protagonista.

A prima vista, questa storia pare violare tutto ciò che abbiamo detto fin qui. Abbiamo sì un protagonista chiaramente definito, ma mancano l’obiettivo, gli esiti possibili, l’antagonista.

Anche in L’Odore del Sangue vi è però conflitto, un conflitto tutto interno al protagonista, che si scopre a mettere in discussione se stesso, le proprie convinzioni e il proprio rapporto con la compagna in ragione dei racconti di lei. Il protagonista si sdoppia tra il libertino che non dovrebbe aver problemi ad accettare il comportamento della donna e l’uomo maturo che sospetta di non aver mai fino in fondo compreso né la compagna, né tantomeno se stesso. Nel momento in cui il lettore intuisce questo sdoppiamento, intuisce anche la possibile distanza drammatica della storia.

L’obiettivo del protagonista diventa allora la ricomposizione di questa frattura e i due esiti possibili la costruzione di un nuovo, diverso equilibrio o il fallimento nella costruzione di questo equilibrio.

LE STORIE COME ARTICOLAZIONI ARMONICHE DI SENSO

Ora che ci siamo chiariti le idee su cosa siano le storie, possiamo tornare alla domanda iniziale: cosa si intende dire quando si dice che una storia è ben costruita?

In estrema sintesi, la “buona costruzione” di una storia ha a che vedere con due aspetti: armonia e senso.

Cominciamo dall’armonia.

L’ARMONIA DI UNA STORIA

In Italia, la percentuale di persone che legge abitualmente è molto bassa. Poco più alta è la percentuale di chi va al cinema con regolarità. Nella grande maggioranza dei casi, gli italiani soddisfano il loro bisogno di storie attraverso lo sport e in particolare attraverso il calcio.

Una partita di calcio (o di football americano, o un incontro di boxe) non è altro che una storia che si svolge in tempo reale, di fronte ai nostri occhi. Protagonista e antagonista sono chiaramente definiti, così come l’obiettivo. Il Brasile, in verde e oro, e la Grecia, in blu e bianco, si scontrano per novanta minuti. Chi fa più gol, vince. La domanda drammatica non potrebbe essere più chiara.

Si tratta di una delle forme più elementari di narrazione, di facile lettura e interpretazione.

Ma cosa rende memorabile una partita di calcio? Perché nessuno ricorda uno 0-0 ma ancora si discute di Italia-Germania, o di Foreman contro Alì?

Immaginiamo una finale mondiale, in cui il favorito Brasile vada in vantaggio per tre a zero sulla Grecia nei primi quarantacinque minuti. La partita sembra ormai avviata verso un esito scontato, non fosse che durante l’intervallo succede qualcosa. Al ritorno in campo, una Grecia galvanizzata recupera due gol. Dal tre a zero al tre a due.

L’inerzia della partita è cambiata. La Grecia è ora a un passo dal pareggio, che le assicurerebbe la possibilità di andare ai tempi supplementari. Non fosse che, grazie a un bruciante contropiede, il Brasile mette il suo migliore attaccante a tu per tu con il portiere greco, che lo stende.

Espulsione e rigore.

I greci ammutoliscono. La squadra ha finito le sostituzioni. In porta viene mandato un giovane centrocampista, alla sua prima esperienza in nazionale. L’arbitro fischia, l’attaccante prende la rincorsa e tira.

Il centrocampista para.

Pochi minuti dopo, la Grecia agguanta un fantastico pareggio, che si trasforma in una storica vittoria ai tempi supplementari.

Se questa fosse una partita reale, se ne parlerebbe per decenni.

La differenza tra questa partita e un 1-0 non sta nella distanza drammatica, identica in entrambi i casi. La differenza sta tutta nel modo in cui questa storia oscilla tra i due possibili finali, cioè nell’armonia della storia.

Se è infatti vero che tutte le storie oscillano tra due polarità – bene e male, lieto fine e tragedia – è altrettanto vero che le storie ben raccontate oscillano in modo armonico. Mostrano cioè un piacevole equilibro tra sequenze di avvenimenti che spostano la storia in un verso (Marco che si alza e fa colazione) e improvvise inversioni che rovesciano la situazione (Marco che muore).

Una storia è armonica quando trova un suo equilibrio tra avvenimenti in continuità e inversioni. Se la storia oscilla troppo rapidamente tra positivo e negativo (l’equivalente di un 13 a 12 in un’amichevole di pre-campionato), il lettore si affatica. Se lo fa troppo lentamente (1-0), il lettore si annoia. Laddove trovi il giusto ritmo, la storia acquisisce un’armonia che la rende piacevole e di facile lettura.

Il vantaggio iniziale del Brasile conferma le nostre aspettative e ci deprime, cosicché il recupero della Grecia risulta inaspettato ed esaltante. Nel momento in cui viviamo la massima eccitazione, ecco un’improvvisa inversione, un elemento di dramma (il rigore) che sposta la storia nuovamente verso il negativo.

Molto spesso, quando diciamo che una storia è ben costruita, ci riferiamo proprio al suo sviluppo armonico. Non tutte le storie sono però elementari come una partita di calcio.

IL SENSO

Fateci caso: quando ci troviamo di fronte un cattivo narratore, ci facciamo sempre le stesse domande:

Dove vuole andare a parare?

Qual è il punto?

Perché divaga (cioè perché racconta eventi non pertinenti)?

Questo insieme di domande può essere sintetizzato nella domanda più importante di tutte, quella che inevitabilmente facciamo quando ascoltiamo una storia mal costruita:

Perché mi hai raccontato questa storia?

Per risultare memorabili, le partite di calcio non devono soltanto essere armoniche, ma devono anche esprimere significati che vadano oltre la semplice concatenazione di avvenimenti che le compone. Le storie devono avere un senso.

Una storia ben costruita non è soltanto armonica, ma è una articolazione armonica di senso.

Prima, parlando della domanda drammatica, citavamo Cappuccetto Rosso. La distanza tra Cappuccetto Rosso e il suo obiettivo è meramente fisica: Cappuccetto Rosso deve attraversare il bosco per raggiungere casa della nonna.

La storia di Cappuccetto Rosso ha però un senso profondo, una morale: non parlare con gli sconosciuti. L’intera storia è costruita per mostrare cosa capita al bambino cattivo che dà confidenza agli sconosciuti, cosicché per la storia di Cappuccetto Rosso questa morale funge da punto di fuga. La mamma, la nonna, il lupo e il cacciatore sono funzioni che servono a esprimere il senso profondo. Non sono nella storia perché il narratore li trovava interessanti, sono nella storia perché il narratore ne aveva bisogno.

La storia di Cappuccetto Rosso diventa allora un’articolazione – cioè una drammatizzazione – di un senso profondo, della morale della favola. Questa drammatizzazione risulta più o meno piacevole a seconda di quanto sia armonica. Se infatti gli elementi fondamentali di Cappuccetto Rosso sono sempre gli stessi (mamma, nonna, la torta, il lupo, ecc. ecc.) il modo in cui questi elementi vengono raccordati cambia da narratore a narratore. Un buon narratore vorrà far avvertire al suo ascoltatore la distanza tra la casa di Cappuccetto Rosso (sicura) e il bosco (spaventoso) e lo farà descrivendo magari il focolare, la mamma che cuce, il babbo che legge fumando la pipa, e ancora il bosco buio, nebbioso, pieno di rumori spaventosi. Questo stesso narratore farà quindi comparire dal nulla il lupo con le sue terribili zanne, che si rivelerà però immediatamente bonario e simpatico, conquistando così la fiducia di Cappuccetto Rosso (salvo poi, ovviamente, tradirla).

Tanto più il narratore avrà chiaro il senso di ciò che sta raccontando, tanto più saprà concentrarsi sugli elementi salienti e tralasciare il resto. Tanto più saprà dove investire una lunga descrizione e dove invece muoversi con rapidità per arrivare “al punto”.

Senso e articolazione essendo gli stessi, la differenza tra le diversi versioni di Cappuccetto Rosso la farà l’armonia cercata e trovata da diversi narratori.

LA GEOGRAFIA TEMATICA

Non tutte le storie hanno però una morale, e non tutte le storie hanno un senso, tantomento un senso chiaramente intelleggibile. David Lynch, per citare un nome che mi viene proposto di continuo, ha costruito una carriera su storie prive di senso. Altrettanto hanno fatto numerosi autori e sceneggiatori.

Se però vi chiedessi di raccontarmi la trama dell’ultimo film di Lynch che avete visto, vi trovereste in forte difficoltà. Non è semplice infatti ricordare una sequenza di avvenimenti casuali, perché ciò che avviene in un dato momento non ha relazione con ciò che lo precede o lo segue, cosicché ogni parte della storia va ricordata a memoria.

Altrettanto capita con sequenze casuali di suoni, come il traffico, mentre invece la musica è così facile da ricordare che capita di trovarsi a fischiettare un motivetto sentito per caso alla radio giorni prima. Alcune storie sono altrettanto contagiose e facili da ricordare di una canzonzina pop, in fondo per lo stesso motivo. Queste storie sono costruite attorno a un senso, che non è però la morale di Cappuccetto Rosso e di ogni altra fiaba, ma qualcosa di leggermente più complesso e interessante.

Se Cappuccetto Rosso deve percorrere una distanza fisica – il bosco – Luke Skywalker deve invece percorrere una distanza che è sia fisica che interiore. Il Luke Skywalker che incontriamo all’inizio di Star Wars è un contadino che non potrà mai sperare di sconfiggere l’Impero. Il Luke che distrugge la Morte Nera è invece un cavaliere Jedi.

La distanza drammatica di Star Wars è di natura diversa rispetto a quella di Cappuccetto Rosso, perché implica per il protagonista la necessità di un processo interiore di trasformazione.

La distanza drammatica di Star Wars è cioè contenuta sia tra due stati diversi del mondo esterno (l’universo dominato dall’Impero Vs l’universo libero dall’Impero), ma anche, e soprattutto, tra due stati diversi del suo protagonista (Luke Skywalker contadino Vs Luke Skywalker cavaliere Jedi). Questa “piccola” differenza crea un’enorme differenza nel modo in cui le due storie sono organizzate.

Dicevamo che le partite di calcio sono una forma elementare di storytelling. Questa affermazione non ha alcun intento dispregiativo. Il calcio è elementare nel senso che distanza drammatica e contendenti sono immediatamente identificabili, così come ovvia è la posta in gioco.

Molte storie sono altrettanto elementari di una partita di calcio.

La Grecia sconfiggerà il Brasile?

James Bond sconfiggerà Goldfinger?

Indiana Jones sconfiggerà i nazisti?

Harry e Sally si innamoreranno?

Il conflitto al centro di queste storie è un conflitto esterno, cioè un conflitto che coinvolge attori diversi e si svolge nel mondo fisico. Come in Cappuccetto Rosso, anche qui i nostri protagonisti devono percorrere una distanza puramente fisica, e non hanno bisogno di subire alcuna trasformazione. Le storie di questo tipo esprimono comunque un senso profondo (visto che devono comunque basarsi su una polarizzazione di tipo bene/male), ma si tratta di un senso profondo elementare, che raramente va oltre “Il Bene vince sul Male” (o viceversa).

Personaggi come Indiana Jones o James Bond, non soltanto non mutano, ma non hanno neppure una vita interiore. Non provano rimorso per ciò che fanno, non vivono storie d’amore che vadano oltre una semplice dinamica di conquista della ‘preda’. Questi personaggi sono definiti esclusivamente dalle loro azioni. Non sono, e non aspirano a essere, persone, ma funzioni drammaturgiche, proprio come il lupo di Cappuccetto Rosso.

Esistono però storie di un secondo tipo, storie i cui personaggi devono trasformarsi per poter raggiungere il proprio obiettivo.

Luke Skywalker deve smettere di essere un contadino e diventare un cavaliere Jedi se vuole sconfiggere l’Impero. Neo deve diventare l’eletto. I ragazzi de L’Attimo Fuggente devono comprendere e abbracciare gli insegnamenti di Keating.

Le storie di questo secondo tipo aggiungono al conflitto esterno un secondo livello di conflitto, detto conflitto interno. Il protagonista percorre sì uno spazio fisico, ma anche uno spazio interiore.

Nelle storie di questo secondo tipo, lo spazio fisico diventa specchio dello spazio interiore. Se ricordate, prima dicevamo che gli avvenimenti di una storia acquisiscono senso e creano interesse solo laddove provochino uno spostamento nello spazio della storia. Nelle storie che prevedono un processo di trasformazione interno, questo ha sempre la priorità sul processo di trasformazione esterno (Luke diventa un Jedi e così sconfigge l’Impero, Neo diventa l’eletto e così sconfigge la Matrice), cosicché gli eventi della storia valgono non in sé e per sé, ma solo per la loro capacità di provocare un cambiamento all’interno del protagonista.

A dire che il processo di trasformazione interiore del protagonista passa per gli avvenimenti esterni della storia. Si parla di drammatizzazione, cioè del processo attraverso il quale qualcosa che dovrebbe essere nascosto all’interno del nostro protagonista viene invece proiettato attorno a lui e incarnato in personaggi, luoghi e situazioni.

Storie di questo tipo si basano su una polarizzazione positivo/negativo di tipo tematico. Sono cioè storie a tema, che propongono una tesi di cui la storia stessa diventa dimostrazione.

In Star Wars, abbandonarsi alla passione, alla paura e alla rabbia è male (il Lato Oscuro), mentre dominare questi istinti è bene.

Per sconfiggere l’Impero, Luke deve diventare un cavaliere Jedi. Per diventare un cavaliere Jedi, Luke deve riuscire a dominare il Lato Oscuro, e cioè resistere alla paura, alla rabbia e al dolore.  Luke si trova così sospeso tra due diverse possibilità di evoluzione. Ciò che gli capita nel mondo reale acquisisce senso perché lo spinge in una o nell’altra direzione. Lo stesso vale per i personaggi che incontra. Il pubblico li percepisce come buoni o cattivi a seconda della direzione in cui spingono Luke. A dire che l’intero mondo esterno di Star Wars acquisisce senso e rilevanza a partire dal conflitto interno di Luke. Siccome questo conflitto ha natura tematica (dominare le proprie emozioni è BENE, abbandonarsi alle proprie emozioni è MALE), l’intero universo di Star Wars va a comporre una geografia tematica, diventa cioè dimostrazione plastica di una tesi.

È evidente come questa tesi sia ben lontana dall’essere assoluta. Una storia diversa potrebbe partire dall’assunto che abbandonarsi alla passione è bene, mentre controllarsi è male. Una terza storia potrebbe cercare una posizione intermedia, arricchendo e rendendo più sofisticato il proprio sviluppo tematico. Resta però il fatto che dare centralità al conflitto interiore impone a queste storie di lavorare su un’impostazione tematica. Necessità che deriva, in ultima analisi, dalla necessità più generale delle storie di basarsi su una polarizzazione positivo/negativo.

Alla fine di Star Wars, Matrix o Harry Potter noi capiamo il senso della storia, capiamo ciò che l’autore voleva dirci attraverso quella storia. Capiamo cioè che la storia che abbiamo seguito non è stata una semplice concatenazione di eventi, per quanto divertente, ma è stata dimostrazione plastica di una verità profonda (che possiamo, ovviamente, accettare o rifiutare).

In storie di questo tipo, gli elementi esterni si dispongono a comporre una geografia tematica, funzionale all’espressione del senso profondo della storia. Il viaggio interiore del protagonista, fulcro della narrazione, diventa così per il narratore l’occasione per provare, confutare o semplicemente analizzare una tesi.

Il concetto di geografia tematica può essere utilizzato per fini e in modi molto diversi.

TITANIC DI JAMES CAMERON

Rose, la protagonista di Titanic vive almeno due storie distinte. Da un lato, sopravvive all’affondamento del Titanic. Dall’altro, vive una travolgente storia d’amore con Jack. Entrambe queste storie, però, sono funzionali al processo di trasformazione che avviene all’interno di Rose.

Titanic non è infatti la storia dell’affondamento della nave, né la storia dell’amore tra Rose e Jack. Titanic è la storia del processo di emancipazone di una donna nell’America del 1912. Processo che viene messo in moto dalla storia d’amore, e messo alla prova dall’affondamento della nave.

Quando la sua storia comincia, Rose si trova a poppa del Titanic, di notte. Fissa l’acqua nera e gelida, pronta a gettarvisi dentro e morire. A prima vista, sembrerebbe una scelta insensata. Rose è bella, giovane, promessa a un uomo ricco e affascinante: perché mai dovrebbe voler morire?

Rose vuole morire perché la sua vita, per quanto all’apparenza meravigliosa, non le appartiene. Il fidanzato è in realtà un uomo gretto e meschino, e Rose non è altro che merce di scambio per la madre, che la sta barattando in cambio di una vita agiata.

Rose è schiava delle costrizioni sociali,  per questo vuole uccidersi.

Rose viene salvata da Jack, un avventuriero che vive alla giornata e ha vinto il biglietto per il Titanic durante una partita a carte. Jack è un uomo compiutamente libero, che vive la vita rispondendo solo a se stesso. Innamorandosi di lui, Rose scopre un’ipotesi di vita diversa, non più da schiava, ma da padrona di se stessa.

Rose comincia così una storia d’amore con Jack, che la porta dalla schiavitù in cui ha cominciato la storia (polo negativo) alla libertà di Jack (polo positivo). La domanda drammatica non è se Rose riuscirà o meno a sopravvivere all’affondamento del Titanic (non per altro la vediamo anziana, ma viva e vegeta, all’inizio del film), né se si innamorerà o meno di Jack. La domanda drammatica non è neppure, per strano che possa sembrare, se Rose si trasformerà o meno. La vera domanda è: cosa succederà a Rose in ragione della sua trasformazione? E quale prezzo si troverà a pagare?

Uno degli aspetti interessanti è che ponendo questa domanda al centro della sua storia, Cameron rende rilevante per noi una storia che altrimenti difficilmente lo sarebbe. Ben pochi di noi si troveranno a dover sfuggire all’affondamento di un translatlantico. E ben pochi di noi i innamoreranno di uno scapestrato avventuriero. Tutti noi, però, in un momento o nell’altro ci siamo trovati a dover scegliere tra ciò che dovevamo fare e ciò che volevamo realmente fare. A dire che tutti noi ci siamo trovati nella stessa condizione di Rose. Da qui nascono l’empatia e l’investimento emotivo necessari a farci seguire la storia.

L’intera struttura della nave viene così riletta a partire dalla polarizzazione positivo/negativo tra costrizioni sociali e libertà. Difatti, mentre si innamora di Jack e impara a essere libera, Rose passa dalla poppa alla prua, dalla prima alla terza classe, dalla notte al giorno. Non per altro, l’immagine che tutti ricordiamo di Titanic è quella di Rose e Jack abbracciati sulla prua della nave in pieno giorno. Non per altro, Rose balla scatenata con i passeggeri della terza classe (libertà), mentre Jack è costretto a spremersi in uno smoking per partecipare a un pranzo in prima classe (costrizione).

Nel momento in cui Rose accetta l’amore di Jack e quindi sceglie la libertà, ecco arrivare l’iceberg che affonda il Titanic. Se Rose aveva percorso volontariamente la nave, dalla poppa alla prua, dalla notte al giorno, la storia la mette alla prova, sprofondandola nuovamente in quelle acque nere in cui voleva gettarsi all’inizio. Rose deve dimostrare, a se stessa e a noi, di essere davvero cambiata.

Jack muore, ma Rose sceglie di vivere: suona così il fischietto per richiamare i soccorsi.

A questo punto possiamo tornare al presente, dove una Rose anziana e appagata, che ha vissuto una vita piena e soddisfacente, può tornare per la terza volta a poppa della nave, a fissare l’oceano. Rose getta in acqua il gioiello che ha messo in moto tutta la storia, accettando così la morte.

Non si tratta però di un suicidio, ma dell’accettazione serena della fine da parte di chi sa di aver vissuto una vita piena. Morendo, infatti, Rose accede al suo personale paradiso: la sala da ballo del Titanic, dove Jack l’accoglie mentre tutti applaudono.

A dire che al centro di Titanic sta una proposizione tematica: vivere seguendo i propri desideri e bisogni è bene, piegarsi alle costrizioni sociali è male. Avvenimenti esterni e personaggi si compongono attorno a Rose secondo una precisa geografia tematica, che diventa esplorazione di questa tesi.

Per esempio, la madre di Rose, solidamente posizionata in prossimità del polo negativo delle costrizioni sociali, è sia una forza che attrae Rose verso il basso, sia la rappresentazione fisica di ciò che Rose diventerà se perderà la sua battaglia e non riuscirà a trasformarsi.

Come la madre, anche Il fidanzato di Rose è una forza negativa. Rose deve lasciarlo perché nell’impostazione di Titanic deve liberarsi. Per fare in modo che il pubblico simpatizzi con Rose quando lei compie questa scelta, il fidanzato è presentato come un mostro: un uomo gretto, insensibile, che considera Rose niente più che un trofeo. Grazie a questa caratterizzazione, la scelta di Rose di lasciarlo per Jack appare scontata.

Se ci pensate, però, c’è un motivo se tanti di noi non scelgono la libertà, e questo motivo è che molto spesso seguire i propri desideri senza curarsi delle conseguenze porta alla sofferenza di chi ci sta attorno. Ecco allora che mostrare il dolore del fidanzato di Rose, umanizzandolo, renderebbe l’esplorazione tematica di Titanic più complessa e in fondo interessante.

Molte storie scelgono una polarizzazione chiara, che esprime un’altrettanto chiara, e spesso semplicistica, impostazione tematica, ma il meccanismo della geografia tematica può essere utilizzato in modi molto più complessi.

WATCHMEN DI ALAN MOORE

In Watchmen, Alan Moore utilizza il meccanismo della geografia tematica in modo completamente diverso. Volendo riflettere sulle caratteristiche del “supereroe” Moore lo scompone  nelle sue componenti base, incarnando ognuna di queste componenti in un personaggio diverso. Costruisce così una geografia tematica che permette al suo fumetto di diventare una raffinata riflessione sulla natura del supereroe.

Al centro della figura del supereroe sta, ovviamente, una specifica idea di giustizia. Supereroi come Batman non sono altro che vigilanti, cioè privati cittadini che decidono in autonomia dove si situi il confine tra bene e male, e come vadano puniti i trasgressori.

Ecco allora che uno dei personaggi chiave di Watchmen è Rorschach, un vigilante disgustato dal degrado morale che lo circonda.

Le società moderne si basano però su un’idea codificata di giustizia, non fosse che sin troppo spesso governi e istituzioni si trovano ad agire al di fuori della legge, concedendosi libertà negate ai singoli cittadini. Ecco allora un secondo personaggio, Il Comico, mercenario al soldo della CIA.

La giustizia dei vari Batman o Spiderman è però una giustizia semplice, che si basa su una contrapposizione bene/male elementare. Batman vede uccidere i suoi genitori da un rapinatore, Spiderman assiste all’omicidio dello zio, e così via. Il mondo reale è molto più complesso, al punto che ciò che può apparire sbagliato da un certo punto di vista si rivela la scelta moralmente corretta da un altro.

Ecco allora Ozymandias, uomo geniale, pronto a sacrificare la città di New York pur di scongiurare il pericolo di un olocausto nucleare, e cioè pronto a sacrificare milioni di persone pur di salvarne miliardi.

E così via. Dal machismo del fumetto classico americano (Spettro di Seta), ai meccanismi proiettivi che incatenano i lettori alle storie di eroi impossibili (Gufo Notturno), fino al vero e proprio superuomo, talmente potente da risultare quasi divino e quindi ormai incapace di empatia verso il genere umano (Dottor Manhattan), ogni personaggio di Watchmen non è altro che un aspetto della figura del supereroe che Moore vuole esplorare.

L’aspetto interessante è che grazie a questa impostazione, i dubbi e le considerazioni di Moore non vengono proposti direttamente al lettore, ma articolati attraverso il processo di drammatizzazione a cui accennavamo prima. Nel momento in cui Rorschach e Ozymandias dialogano, il loro confronto diventa inevitabilmente discussione sulla natura della giustizia e sul rapporto tra giustizia e supereroi. A dire che il meccanismo della geografia tematica permette a Moore di creare un meta-fumetto, cioè un fumetto che è in realtà riflessione sulla natura del fumetto stesso.

A differenza di quanto fa Cameron in Titanic, Moore non è interessato tanto ad esprimere una tesi, quando a sviluppare una riflessione. Sezionando la figura del supereroe e incarnandone diversi aspetti in diversi personaggi, crea l’ambiente perfetto per queste sue riflessioni, che vengono espresse non in forma di saggio, ma di storia.

Questa geniale intuizione sarà alla base di un terzo prodotto, che si situa in un certo senso a metà strada tra Watchmen e Titanic, utilizzando la geografia tematica in un modo ancora diverso.

THE DARK KNIGHT DEI FRATELLI NOLAN

Le storie di supereroi – almeno quelle che ci vengono proposte al cinema in questi anni – hanno un grave difetto: non hanno alcuna posta in gioco.

Sedendoci in sala, sappiamo perfettamente che Capitan America non morirà, che gli alieni non riusciranno a distruggere New York e che la storia finirà bene.

Le storie di supereroi (al cinema; nel mondo del fumetto le cose sono oggi molto diverse) si seguono come si va sulle montagne russe, per provare il brivido della caduta con l’assoluta certezza che non ci si schianterà.

L’eccezione più significativa a questa regola è The Dark Knight.

C’è un motivo se nelle sue precedenti incarnazioni cinematografiche Batman si è sempre mosso in mondi estremamente stilizzati. Sia Burton che Schumacher, infatti, erano ben consapevoli che Batman è un personaggio inverosimile, che non potrebbe mai esistere nel mondo reale. Stiamo infatti parlando di un miliardario che per combattere il crimine non ha trovato di meglio che travestirsi da pipistrello e picchiare i cattivi. Elemento cardine del canone di Batman, infatti, è l’idea che Batman non usi armi da fuoco e non uccida i suoi nemici.

In poche parole, Batman è un ipocrita. Combatte il male, ma solo nella misura in cui la sua lotta non lo costringe a mettere in discussione la sua moralità. Batman combatte sì il male, ma solo fin dove arrivano i suoi pugni.

Abbiamo tutti letto almeno una storia in cui l’eroe buono si trova costretto dalla realtà in cui vive a mettere in discussione il proprio codice morale. Serie TV come The Shield, o The Wire, o romanzi come quelli di Ellroy lavorano proprio sulla decostruzione della figura del poliziotto, nella consapevolezza che nel mondo reale, raramente c’è spazio per i valenti cavalieri in armatura bianca.

Ecco perché Batman può esistere solo in un mondo “altro” rispetto al nostro, stilizzato, lontano anni luce dalla realtà che troviamo nei giornali.

L’aspetto geniale del lavoro dei fratelli Nolan è che, laddove chi li aveva preceduti aveva fatto il possibile per nascondere questa contraddizione interna al personaggio, loro si muovono in direzione opposta. Non soltanto portandola in primo piano, ma usandola per alzare la posta in gioco del loro film.

Come ogni storia di supereroi, anche The Dark Knight è costruito attorno a un conflitto esterno chiaro e ben definito, quello tra il Joker e Batman. Lo scopo del Joker non è però uccidere Batman o distruggere Gotham City, ma piuttosto svelare l’ipocrisia al centro del personaggio di Batman.

Per quanto presentato come un pazzo, il Joker porta avanti una posizione di grande lucidità, e rilevante sul piano tematico. Nessuno, sostiene il Joker, è normale. Le persone si vantano della loro normalità e bontà senza rendersi conto che queste derivano esclusivamente dalle condizioni privilegiate in cui vivono. Date le giuste circostanze, chiunque è un mostro.

È facile intuire perché questo personaggio abbia interesse a dimostrare una tesi del genere: se tutti sono dei mostri, allora tutti sono normali, incluso il Joker stesso.

Ed ecco che il Joker si trova di fronte Batman, un paladino del bene, che si traveste però da pipistrello, e che non vuole rinunciare a sentirsi superiore ai cattivi che pure combatte. Non è forse per questo che Batman si rifiuta di uccidere? Per restare aggrappato a un’idea di normalità che ogni altro elemento della sua vita nega?

Il fatto che Batman non uccida è per il Joker la massima ipocrisia.

Batman vuole credersi diverso dal Joker. Joker vuole provare che lui e Batman sono identici.

Prima di continuare, è interessante notare come questo elemento cambi la posta in gioco della storia. Se il Joker dovesse aver successo, non sconfiggerebbe solo il Batman di The Dark Knight, ma negherebbe la possibilità stessa del Batman personaggio. Le caratteristiche sulle quali va ad agire il Joker, infatti, non sono specifiche della versione di Nolan, ma sono parte del canone di Batman. Cercando di dimostrare l’ipocrisia di Batman, il Joker di Nolan mette in pericolo il personaggio amato e venerato da milioni di lettori in tutto il mondo. A dire che, in una certa misura, la posta in gioco lascia il mondo della storia per entrare nel nostro.

I fratelli Nolan posizionano gli elementi della storia allo scopo di rendere evidente la contraddizione interna di Batman, così da dare al Joker gli strumenti necessari a metterla in tensione. Ecco allora che se Batman vuole la giustizia, Bruce Wayne vuole una vita normale. Bruce Wayne desidera infatti l’amore di Rachel, che gli ha fatto però capire che non potrà mai amarlo finché lui vivrà una doppia vita. Rachel frequenta quindi il procuratore distrettuale Harvey Dent, uomo di giustizia, ma di una giustizia “normale”, inseguita alla luce del giorno, con mezzi socialmente accettabili.

A dire che la giustizia tanto cara a Batman – Harvey Dent – sta derubando Bruce Wayne della vita normale che vorrebbe, incarnata da Rachel. La contraddizione interna al personaggio viene rappresentata da elementi esterni al personaggio nel più classico dei processi di drammatizzazione.

Attorno a Batman si costruisce così una chiara geografia tematica. Da una parte la giustizia – Dent – di cui Gotham ha disperatamente bisogno – come ricordato di continuo a Batman dal commissario Gordon – dall’altra, l’ipotesi di una vita normale  – Rachel – a cui Batman dovrà prima o poi aspirare – come ricordato di continuo a Bruce Wayne da Alfred. Su questa struttura va ad agire il Joker, con l’intento di divaricarla e infine spezzarla, spezzando così Batman.

Joker rapisce quind sia Rachel che Harvey Dent. Li porta in luoghi diversi e li collega entrambi a congegni a tempo. Si fa quindi catturare da Batman, a cui rivela dove i due siano tenuti prigionieri.

Il problema è che ora Batman deve scegliere, perché non ha tempo per salvare entrambi. Batman può scegliere la giustizia – Dent – o la vita normale e l’amore – Rachel – ma non può avere entrambi.

Batman sceglie di salvare Rachel, e quindi l’amore, ma il Joker ha invertito le posizioni dei due prigionieri. Batman corre da Rachel, ma trova Dent. Rachel muore, mentre Dent rimane sfigurato.

A dire che scegliendo il proprio tornaconto personale alla giustizia, e cioè provando la tesi di Joker, Batman perde per sempre la possibilità di una vita normale, mentre la giustizia viene sfigurata. Dent si trasforma così in Due Facce, il cattivo che decide la sorte delle persone con il lancio di una moneta (la casualità come esatto opposto della giustizia razionale e ponderata).

Ecco allora che il terzo atto di The Dark Knight vede Batman fare ammenda per il tradimento compiuto. Batman si incolpa delle azioni orribili di Dent/Due Facce, ripristinando così la purezza della giustizia, e riuscendo quindi a sconfiggere il Joker, a prezzo del suo desiderio di normalità.

In pochi altri prodotti come in The Dark Knight il meccanismo della geografia tematica è chiaro. Il Joker, Harvey Dent, l’Ispettore Gordon, lo Spaventapasseri, Rachel: nessun personaggio di The Dark Knight vale in sé, ma solo come rappresentazione di una posizione tematica, la cui funzione è andare ad agire sul conflitto interno del personaggio principale.

La “successione di fatti e vicende” di The Dark Knight non soltanto si muove in uno spazio di senso, non soltanto è armonica, ma diventa drammatizzazione di una verità profonda, che l’autore ha scelto di esplorare non in un saggio, ma in forma di storia.